La capra espiatoria

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Negli anni 70, alcuni esponenti della Scuola di Palo Alto – in particolare Watzlawick, Beavin, Sikorski e Mecia – allestirono un esperimento allo scopo di comprendere i  meccanismi di formazione e protezione di un capro espiatorio all’interno di una famiglia. In soldoni, l’esperimento funziona così. Ogni membro della famiglia scrive in forma anonima un commento negativo indirizzato a ciascun altro membro della famiglia. Successivamente, i commenti negativi vengono fatti leggere a tutti i membri della famiglia, e si chiede a ognuno: secondo te, a chi è destinato questo commento negativo? Il capro espiatorio è il membro della famiglia al quale viene attribuito il maggior numero di commenti negativi che in realtà erano stati indirizzati ad altri membri.

Sempre intorno agli anni 70’, una concezione meno formalizzata e più filosofica del capro espiatorio è stata invece avanzata da René Girard. Secondo Girard il capro espiatorio è l’individuo verso il quale la comunità dirige le sue pulsioni violente e distruttive.  Questa violenza costitutiva è dovuta al fatto che il desiderio che muove le azioni individuali è mimetico, ossia imitativo: si desiderano le cose che gli altri desiderano.  Attraverso il contagio imitativo, un numero sempre maggiore di individui finisce per desiderare la stessa cosa, entrando così in diretta competizione con gli altri. Da questa competizione deriva quella violenza che deve essere diretta verso un capro espiatorio allo scopo di salvare la comunità dalla guerra di tutti contro tutti, e quindi dall’autodistruzione.

Una terza figura del capro espiatorio la troviamo nel celebre testo di antropologia evoluzionista Il ramo d’oro, scritto da James Frazer e pubblicato per la prima volta nel 1890. Frazer racconta di una tribù africana che eleggeva il proprio capo in un modo apparentemente singolare. Dopo aver scelto con accuratezza il proprio leader, al termine dei festeggiamenti collettivi di rito il malcapitato veniva legato ad un albero e massacrato a colpi di sassate. Al termine della cerimonia, la tribù ricominciava la selezione del nuovo capo, che a sua volta veniva festeggiato e lapidato, e così via all’infinito.

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E’ difficile che tutto quello che sia successo a Roma possa essere ridotto alla logica del capro espiatorio. L’intreccio degli interessi politici, partitici, economici e criminali che costituiscono la realtà della Capitale non può essere compreso attraverso una semplice analogia con alcuni esempi tratti dalla psicologia, dalla filosofia e dall’antropologia. Tuttavia, le tre figure descritte sopra possono aiutarci a capire come Ignazio Marino, ormai ex sindaco di Roma, sia stato il capro espiatorio di un sistema che, al fine di preservarsi, ha deciso di mantenere il proprio equilibrio espellendo, o sacrificando, un elemento che allo stesso tempo risultava interno ed estraneo. Interno, in quanto attore – volente o nolente –  dei giochi politici di potere. Estraneo, in quanto incapace di leggere le regole non scritte del potere della capitale.

Marino è evidentemente un capro espiatorio nel senso impiegato da Watzlawicz e colleghi. Come nell’esperimento familiare descritto prima, all’ex sindaco sono state attribuite tutte le critiche che normalmente vengono rivolte agli altri soggetti politici romani. Come Alemanno, Marino è stato definito “colluso”, sebbene le carte di Mafia Capitale sembrino dimostrare il contrario, o quantomeno sembrino delineare due livelli di collusione assolutamente imparagonabili. Al pari di Renzi, Marino è stato definito come “poco propenso al dialogo”. Infine, come i 5 stelle Marino è stato spesso apostrofato come “onesto ma scemo”. Nel senso specifico di Watlawicz, l’ex sindaco ha rappresentato così il perfetto capro espiatorio della grande famiglia della politica romana e italiana, la grande occasione per tutti di liberarsi delle attribuzioni negative ricevute e di riversarle su di un unico individuo. Sul fatto che poi Marino fosse veramente “colluso”, “poco propenso al dialogo” e “scemo”, la discussione è aperta, ma ciò che conta è il meccanismo, che è appunto con ogni evidenza un meccanismo di produzione di un capro espiatorio.

Anche l’interpretazione di Girard sembra poter essere applicata agevolmente all’affaire Marino. In questo senso, la comunità violenta è evidentemente il PD, un gruppo oramai completamente agito dal desiderio mimetico del potere. Un potere che tutti desiderano, tutti vogliono, e che tutte le correnti più o meno variabili si contendono senza ormai alcun tipo di mediazione argomentativa. Un giorno il commissario del PD romano Orfini si alza e afferma che schierarsi contro il sindaco significa assumere la stessa posizione della “Mafia”. Qualche settimana dopo, lo stesso Orfini avalla la destituzione di Marino, autoaccusandosi così implicitamente di collusione ideologica con la “Mafia”. Un comportamento incredibile, in apparenza. Ma la perdita plateale della coerenza è nulla, rispetto all’impedibile occasione di distruggere il sindaco, di potere esprimere finalmente senza limiti la violenza interna del branco allo scopo di cementare l’unità del branco stesso. Non è forse un caso che nessun esponente del PD abbia esplicitamente difeso il proprio sindaco nel momento decisivo, e che addirittura tutti i consiglieri democratici abbiano rassegnato in contemporanea le dimissioni al fine di “porre fine all’agonia di Marino” . Un’eventualità ardua anche a livello statistico, visto il numero infinito di posizioni divergenti normalmente presenti nel maggiore partito italiano. Tuttavia, le divergenze tendono ad affievolirsi quando si tratta di salvare la comunità da se stessa attraverso il sacrificio rituale. E’ per questo che i capri espiatori sono così utili.

Per quanto riguarda invece il terzo esempio, credo che l’analogia sia piuttosto evidente, e rimandi a una grande tradizione del centro sinistra italiano. Almeno dai tempi dell’Ulivo – forse anche prima – ogni leader è stato acclamato, eletto, e lapidato senza pietà. Nel caso di Romano Prodi, questa serie drammatica si è ripetuta più volte, dagli anni ‘90 fino all’agguato del 2013 dei 100 “franchi tiratori”. Tra tutti, Marino è stato il capro espiatorio più umiliato, più sbeffeggiato, meno rispettato. Come ripetono tutti i media all’unisono – da La Repubblica, capofila del fuoco “amico”,  fino a “Il Fatto Quotidiano” passando per “Messaggero” e “Corriere della Sera” – la caduta dell’ex sindaco non è dovuta a una battaglia campale o a un complotto, ma semplicemente alla sua ingenuità, al suo essere “scemo”. Dunque non un capro, ma una “capra” – nell’accezione del termine resa immortale da Vittorio Sgarbi –, che per la sua stupidità ha meritato una fine indecorosa, senza nemmeno meritarsi l’onore delle armi che si concede ai cattivi.

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Lasciando da parte le analogie e tornando alla bruta realtà, è utile chiedersi: poteva essere evitato tutto ciò? Non è facile a dirsi, ma certo c’è stato un momento in cui Marino, aldilà delle scemenze sulla Panda multata o sugli scontrini, ha sbagliato. Come noto, nel mese di Luglio il PD ha di fatto commissariato l’ex sindaco di Roma, imponendo l’entrata in giunta di Causi – già assessore con Veltroni – e Esposito – senatore piemontese pro tav. Come facilmente immaginabile, i due hanno interpretato uno dei più classici tra i ruoli della commedia politica italiana: il cavallo di Troia. Sono entrati in giunta, sono restati due mesi, e nel momento più opportuno si sono dimessi curiosamente in contemporanea, affossando definitivamente il Sindaco. La sorte di Marino era dunque già segnata almeno da tre mesi, ragion per cui sarebbe stato più coraggioso rifiutare il commissariamento e cercare una maggioranza attorno a una giunta indipendente dalle porcate politiche del PD. E’ chiaro che le possibilità di riuscita di un’impresa del genere sarebbero state  pressoché nulle, visto che il Partito Democratico avrebbe seduta stante tolto ogni tipo di sostegno,  i 5 Stelle si sarebbero spaccati, Sel forse avrebbe aderito, ma con uno scarso potere contrattuale a livello numerico. Inoltre un’operazione del genere è tecnicamente piuttosto complessa a livello comunale, più di quanto non lo sia a livello nazionale, dove oramai è prassi consolidata. Tuttavia, in questo modo Marino avrebbe difeso la propria dignità, e forse anche preparato una sua candidatura da indipendente alle prossime elezioni. Accettando il commissariamento pre mortem del PD, Marino è invece caduto nella trappola politica e mediatica che ha prodotto l’identificazione del capro e della capra, della vittima e dello scemo. Perché Roma può essere governata dai criminali, dai collusi, dai mafiosi, ma mai da uno “scemo”.

About Mario.

 

 

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Come ampiamente prevedibile, un secondo dopo il fischio finale del discutibile arbitro di Italia – Uruguay è cominciata la  querelle tra pro-Balotelli e anti-Balotelli. In mezzo sono successe una miriade di cose – le dimissioni di Prandelli, la sclerata di Buffon sui giovani, quella dello stesso Balotelli sul fatto che i neri non lo avrebbero tradito, le indiscrezioni sulla lite in spogliatoio -, ma nulla è riuscito a distogliere gli italiani dal loro divertimento preferito: dividersi in due schieramenti sulla base dell’antipatia – simpatia provata verso un certo personaggio.

 

Che Balotelli non sia stato decisivo in Brasile, lo si capisce anche se non si è esperti di calcio, come non lo è chi scrive. Che la sua arroganza si stia dimostrando non proporzionata rispetto ai valori espressi in campo, pare pure assodato. Ed è inoltre vero, come mi ha fatto notare l’amico Stefano Mondi, che Prandelli ha difeso Mario contro tutti e tutto per 4 anni, e quindi la mancanza di rispetto plateale del secondo nei confronti del primo che pare sia avvenuta negli spogliatoi non può che essere catalogata sotto la voce “ingratitudine e stronzaggine”. Questi tre elementi sono evidenti e innegabili, e depongono a favore delle tesi della fazione degli anti – Mario. Al contrario, i difensori di Balotelli sembrano appiattiti su di una forma di moralismo buonista, per cui al centravanti del Milan non si può obiettare niente senza rischiare di passare per razzisti. Un buonismo che si rovescia in una sorta di razzismo al contrario, per cui se un bianco avesse fatto ciò che ha fatto Balotelli sarebbe stato linciato a colpi di codice etico, mentre a un nero si perdona tutto. La divisione tra neri intoccabili e bianchi contestabili produce così un’evidente discriminazione, alla faccia della sbandierata crociata a favore dell’uguaglianza. Conclusione del ragionamento: Mario è uno stronzo sopravvalutato arrogante sbruffone, e chi non la pensa così è un moralista.

 

Questa tesi è un po’ vera, forse un po’ falsa, per molti versi più vera che falsa. Di certo, è riduttiva. Il vero punto della questione  non riguarda infatti i tratti caratteriali di Balotelli e le sue presunte qualità, quanto il fatto che nella “discussione” sull’uscita dell’Italia dai mondiali ha giocato un ruolo decisivo una componente sottaciuta di razzismo. Il che – lo ripeto a scanso di equivoci – non significa che chiunque contesti le qualità e i modi di fare di un centravanti nero sia razzista. Ma prima ancora dell’entrata in scena del pregiudizio razziale, c’è un altro meccanismo potentissimo che come al solito si è impossessato delle penne dei mass media e delle menti degli italiani. Mi riferisco alla cara vecchia individuazione del capro espiatorio.

 

E’ una storia che dura da millenni: una comunità battuta e ferita ha bisogno di trovare in se stessa, o meglio in un suo elemento, la causa scatenante del male subito. La violenza sacrificale non si esercita a caso. A seconda delle epoche e dei contesti culturali, ci sono delle caratteristiche specifiche che definiscono l’identikit del capro espiatorio: nell’antico Egitto erano le persone con i capelli rossi, nell’Europa premoderna era colpa delle streghe, nell’Europa moderna è il turno degli ebrei. Oggi non si uccide nessuno, o quasi, ma il meccanismo è ancora intatto, e si esercita attraverso il linciaggio mediatico e il passaggio dalla dimensione della responsabilità a quella della colpa. Nel caso della nazionale di calcio, questo significa che tutti, dall’allenatore ai giocatori ai dirigenti, sono responsabili, ma qualcuno è colpevole. Se i primi hanno sbagliato, il secondo ha invece fatto una cosa cattiva. I responsabili verranno puniti con una pena per così dire di tipo amministrativo – dimissioni, mancata convocazione, abbassamento stipendio, sospensione dell’incarico -, ma il colpevole invece deve scontare una punizione più profonda: la gogna mediatica e sui social network, l’odio, l’insulto, in alcuni casi l’esclusione dalla comunità. Se il meccanismo sacrificale esiste da sempre, cambiano  le modalità in cui la pena viene inflitta – oggi non si ammazza quasi nessuno, grazie al cielo – e i criteri di selezione del capro espiatorio. Se oggi non ci fosse stato un nero arrogante, il colpevole sarebbe stato un altro. Probabilmente Cassano, perché è un terrone che fa quello che cazzo gli pare e non corre, due criteri piuttosto utili al fine dell’assegnazione del ruolo di colpevolezza. Ma stavolta c’era Balotelli, e ce ne siamo accorti. Tutti responsabili, tutti scarsi, tutti somari all’occhio dei 50 milioni di CT della nazionale, ma solo uon passibile di giudizio morale prima che tecnico.

 

Il punto fondamentale non è dunque l’intoccabilità di un certo giocatore -che può essere garantita soltanto a mezzo della paradossale discriminazione descritta in precedenza – quanto l’individuazione di un fenomeno sociale quale quello dell’individuazione del capro espiatorio e dei suoi meccanismi.  Che a fronte della comune pessima performance della nazionale si sia dedicato a Balotelli tanto tempo, spazio, tante tiritere morali in un senso o nell’altro, non è che la testimonianza del fatto che in Italia oggi il colore della pelle è un fattore di selezione del colpevole da punire,  o anche da difendere. Difatti, c’è un elemento di sottile razzismo nell’atteggiamento di alcuni sostenitori della causa di Mario. Nell’esaltazione forse prematura, forse ingiustificata, di sicuro ancora da dimostrare di questo giocatore, non c’è forse a volte anche l’eccitazione per aver trovato un nero finalmente utile e eccezionale? Tra coloro che oggi buttano Balotelli dalla rupe morale, non c’è forse qualcuno che in precedenza lo aveva innalzato oltre l’innalzabile, per dimostrare a se stesso e agli altri di non essere razzista, “perché quando un negro è forte e se lo merita io lo riconosco”? Un discorso questo che però è iper razzista, perché presuppone la tesi storicamente radicata nell’Occidente della mediocrità del nero medio, che può essere riscattata sola dal nero forte, superiore, che ci piace. E quando questo nero delude le aspettative, allora con lui crollano tutti i suoi simili e i suoi analoghi – nel caso specifico, i calciatori della nazionale che prontamente Matteo Salvini ha attaccato i quanto “oriundi”, e dunque estranei allo spirito italiano. Vedrete che, a triste sostegno della nostra tesi, non mancherà chi userà la cerimonia di espiazione per dire che forse il calcio italiano va così male perché ci sono troppi “stranieri” in nazionale, mettendo sullo stesso piano i naturalizzati – Thiago Motta, Paletta, negli anni passati Camoranesi e Osvaldo – con quelli che invece sono nati e cresciuti in Italia – Balotelli, forse in futuro El Shaarawy e Ogbonna.

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Vorrei chiudere con un’analogia. Durante i gironi dei mondiali, ho avuto il piacere di leggere l’autobiografia di Miles Davis. Miles era un nero antipatico, un duro, un esibizionista, a volte violento, con un trascorso nella delinquenza e un passato lavorativo da pappone. Era così, nel bene e nel male, punto e basta. Ma nell’America di quegli anni, ciò che cambiava era il modo in cui lo stesso gesto veniva percepito a seconda del fatto che fosse stato compiuto da un bianco o da un nero. Così scrive Miles:

 

Poi c’erano tutti quei critici bianchi che avevano cominciato a parlare dei jazzisti bianchi che ci imitavano come se fossero dei grandissimi geni musicali e stronzate del genere. E alcuni di questi bianchi erano dei tossici esattamente come noi, ma non c’era nessuno che scrivesse di loro nel modo in cui scrivevano di noi. Non si accorsero che anche i bianchi potevano essere tossicodipendenti pesanti, fino a quando Stan Getz non fu pizzicato mentre cercava di scassinare una farmacia per rubare un po’ di droga. Questa stronzata fu sulle prime pagine dei giornali fino a quando la gente non lo dimenticò e ricominciò a parlare soltanto di quanto eravamo fatti noi musicisti neri.

 

Ancora una volta, il meccanismo sociale, prima che le “qualità” o i difetti della persona. Tuttavia, l’analogia Davis – Balotelli è palesemente inadeguata sotto un aspetto. Miles era arrogante, ma sappiamo quanto abbia sofferto prima che il mondo dei bianchi riconoscesse il fatto che era lui il numero uno, e non i suoi pur fortissimi avversari bianchi. Al contrario, Mario è arrogante ma non è mai stato il numero uno, nonostante tanti bianchi ce l’abbiano fatto credere e ora lo puniscano per non esserlo diventato.

 

 

 

 

 

I professori, le riforme, ma soprattutto le opposizioni

L’incredibile tepore che circonda l’operato del governo Renzi è stato recentemente scosso dal missile terra-aria sparato da Maria Elena Boschi. La neoministra ai rapporti con il Parlamento ed alle Riforme ha dichiarato infatti che l’azione riformista in Italia è bloccata dalla resistenza dei professori.

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La frase, a prima vista assolutamente vaga e generica come nella migliore tradizione linguistica populista – a proposito, è scomparso ieri Ernesto Laclau, uno dei pochi che del populismo aveva capito qualcosa – si riferisce in realtà ad un episodio ben preciso. Un nucleo di professori capitanati da Zagrebelsky e Rodotà ha profondamente criticato l’ipotesi di ridorma costituzionale formulata dal governo Renzi. La bozza prevede lo svuotamento pressoché assoluto delle prerogative del Senato, che verrà composto da Sindaci ed amministratori locali non pagati ed privati dell’esercizio del voto di fiducia, riservato ai colleghi deputati.

La proposta Renzi, evidente propaggine del patto con Berlusconi del Gennaio 2014, è stata criticata dal prof. Rodotà in quanto antidemocratica ed illiberale. L’azzeramento del potere decisionale del Senato, in un sistema che oramai taglia fuori dalla rappresentanza parlamentare quei milioni di cittadini che votano partiti che prendono alle elezioni meno dell’otto per cento e coalizioni inferiori al 12%, è secondo Rodotà l’ennesima mossa neo-autoritaria sprezzante nei confronti del volere dei cittadini.

Critiche che hanno provocato le suddette reazioni della Boschi, la quale ha sbraitato contro i professoroni conservatori e nemici del progresso. L’esternazione della ministra risulta interessante sotto due punti di vista:

Punto primo: Il PD oramai odia i professori che tanto amava all’epoca del “ventennio berlusconiano”. I girotondi, il referendum del 2006 che vedeva uniti i professoroni e la sinistra contro una proposta di riforma costituzionale analoga rispetto a quella di Renzi, gli appelli degli intellettuali su “La Repubblica”, l’amore per “la Costituzione più bella del mondo” fanno parte di un repertorio oramai caduto in miseria. E’ l’ora delle riforme, qualunque esse siano. E contro gli anti riformisti, la retorica vincente è sempre quella lasciata in eredità da Silvio: noi renziani vogliamo il cambiamento, voi professoroni volete la conservazione; noi vinciamo, voi perdete; noi prendiamo i voti, voi prendete la pensione da professore ordinario. E così via.

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Restringendo ragionevolemente l’ambito della polemica dalla classe dei “Professori” al sottoinsieme formato da “un certo tipo di professori”, la polemica della Boschi assume delle fattezze di senso. E’ vero un po’ che i professoroni che scrivono contro un potere di cui leccano i piedi in continuazione, e contro un sistema che a loro volta riproducono spietatamente nei consigli di facoltà, hanno sono diventati da tempo insopportabili.

 Purtuttavia, la critica specifica della Boschi risulta indifendibile sia per il pulpito da cui proviene – quello di una ragazza che ha ricevuto le deleghe fondamentali delle Riforme e dei rapporti con il Parlamento non avendo dedicato un secondo della sua vita precedente il giorno della nomina a ministro ai suddetti temi -, sia per l’oggetto della polemica –  Rodotà avrà pure ottant’anni, ma mentre il professorone studiava lo stauto giuridico dei beni comuni e d il diritto alla privacy nell’era digitale, e mentre lavorava alla stesura dei referendum sull’acqua, la giovane Boschi si distingueva come solerte liquidatrice dell’acquedotto fiorentino ai privati. Questo per la serie: ggiovani ,riforme, innovazione, bla bla bla.

Punto secondo: il commento più intelligente in proposito a questa faccenda è stato per distacco il seguente:

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E’ incredibile come la critica più brillante alle dichiarazioni della Boschi provenga da Forza Italia, massima sostenitrice delle riforme incriminate. E’ inutile, il dadaismo dei berlusconiani è una delle poche luci nel firmamento politico italiano. Considerazione che ci spinge ad una veloce rassegna sullo stato dell’arte delle opposizioni al renzismo in Italia.

Cap. 1. La lega Nord.

La Lega Nord versione Matteo Salvini è un po’ fan di Renzi , di cui condivide la forza polemica ed il pragmatismo millantato, ossia il linguaggio che parla in continuazione di fare le cose dando così l’idea di farle. E’ però ancora forte il richiamo della foresta, il sogno di un ritorno ad un passato barbarico di secessione e soddisfacimento immediato e preverbale dei bisogni fisici.

Agli occhi della Lega Renzi è un uomo del Sud che parla come uno del Nord, e questo crea imbarazzo. Probabilmente si deve a questo coacervo disordinato di passioni la geniale sortita dell’altro giorno, in cui Salvini ha chiesto con violenza la liberazione degli eroi secessionisti veneti. Altrimenti, ha minacciato il Matteo meno famoso, li liberiamo noi. Della serie, socialismo o barbarie, tifando ferocemente per la seconda opzione.

Cap. 2. I 5 stelle

I ragazzi e le ragazze del 5 stelle sono anch’essi/e un po’ in imbarazzo. Il neo premier Renzi becca infatti nel loro pollaio ideologico con fare da tacchino impertinente, martellando ogni dannato giorno i media con la sua battaglia contro la kasta ed i vecchi, che pure continuano ad imperversare nelle amministrazioni locali dopo essere passati sotto le sue fila. Della serie: rottama se non vuoi essere rottamato.

Il populismo soft renziano, citando il professorone Rodotà, toglie un po’ di elettorato a quello hard grillino, defraudato dei suoi cavalli di battaglia e dunque ancora più ansioso di dimostrare la sua differenza rispetto agli altri partiti. Da qui la decisione di votare a caso contro provvedimenti condivisibili come quelli sulle dimissioni in bianco, giusto per poi andare dagli odiati giornalisti e dire: “NOI NON CI STIAMO!!”.

Rimane inoltre l’incognita della collocazione europea, tema di cui gli italiani tuttavia se ne infischiano notoriamente, salvo poi piagnucolare contro l’Europa matrigna. durante i collegamenti tv in diretta dai “luoghi della crisi”.

Cap. 3. La sinistra unita.

La sinistra correrà sola ed unita alle prossime elezioni europee. EVIVAA! Il nome della lista sarà “Lista Tsipras”, in onore all’oppositore greco della troika che che in patria viaggia oltre il 20%.

Tutto bene, entusiasmo alle stelle, finché non escono i primi sondaggi. Che danno la lista all’otto per cento. Una cifra troppo alta, una proiezione che spaventa animi oramai scientificamente programmati alla sconfitta ed alla necessaria disfatta. L’imprevisto genere panico, angoscia, spaesamento. I social networks si riempiono commenti increduli, di elettori della sinistra che richiamano al realismo ed al senso del decoro, perché un vero compagno non piange, non crede ai sondaggi e non si fascia la testa di borghesi illusioni.

Detto fatto: dopo un mese di scetticismo marxista scientifico, i sondaggi si sgonfiano, e la lista Tsipras è finalmente scesa sotto lo sbarramento del 4%. La sinistra pare visibilmente tranquillizzata, i suoi esponenti perfettamente a loro agio nei ruoli che li hanno resi celebri in tutto il mondo: il lamento per l’occasione persa, il richiamo all’unità, le accuse incrociate tra i partitini federati, e così via. Scampato pericolo.

Cap. 4. Magdi Cristiano Allam.

Magdi Cristiano Allam è passato oramai da tempo dalle colonne moderate del Corriere della Sera, al fronte no euro no islam no immigrazione. E’ probabilmente uno dei candidati più estremi delle liste di Fratelli d’Italia, ed i testi di Oriana Fallaci oramai sembrano libelli di Rosa Luxemburg  in confronti ai suoi posts. Addirittura Cristiano se la prende talvolta pure con Papa Francesco, a cui tutti oramai vogliono bene, da Vladimir Luxuria ad Angelino Alfano. Impagabile. Mai quanto questa foto, scattata nel tour di Allam nel Nord est, circoscrizione in cui è candidato.

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Bilancio politico del 2013

L’ennesimo anno si è concluso, e forse questo sarà ricordato come l’ultimo anno della Kasta. Mentre prima eravamo costretti a sorbirci nei giornali ed in tv D’Alema, Casini, Cicchitto, Elio Vito – dimenticato dai più, ma sempre nei nostri cuori – e magari  se ci diceva fortuna anche  la colomba poetante Sandro Bondi, adesso siamo così fortunati che la carta e l’etere ci tengono maniacalmente informati sulle ultime avventure di Renzi, Letta, Grillo, Casaleggio ed Al Fano, nome che scriverei staccato per ricordarne l’evidente origine araba. Tuttavia, anche nel turbinio di grandi cambiamenti e sconvolgenti progressi che ci ha regalato questo pazzo 2013, qualcosa rimane.  

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Tra le pagine chiare e le pagine scure dei quotidiani continua infatti a campeggiare il volto di Sandro Bondi, trasformatosi tuttavia in falco intorno alla metà di Agosto. Una metamorfosi che ha attirato l’attenzione dei produttori di Hollywood, che l’hanno subito contattato per sostituire l’oramai sfiorita Michelle Pfeiffer nel remake di Ladyhawk. Sappiate che Sandrone ha già detto sì.

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Rimane molto in voga anche  Giorgio Napolitano, riconfermato per la seconda volta al Quirinale e molto amato dai politici. I parlamentari hanno molto applaudito ed apprezzato il suo discorso di insediamento, in cui il Presidente ha dedicato decine e decine di minuti allo scopo di poterli trattare da minorati, incapaci, imbecilli ed inetti. Come insegna la psicologia, è sempre bello ed emozionante  il momento in cui l’altro ci restituisce un’immagine veritiera di noi stessi. E’ invece psicologicamente  inspiegabile la rabbia zelante con cui ogni maledetta domenica di questo magico 2013 Eugenio Scalfari ha preso la penna per difendere Napolitano e insultare in stile Vittorio Feltri i suoi detrattori. I  lunghi editoriali dell’ex Direttore, in cui il  senso logico delle argomentazioni è stato tragicamente sacrificato alla nobile causa della governabilità, ci appaiono come l’istituzione più difficile da rottamare in questo pur rinnovato paese. Tuttavia, noi continuiamo a preferire al Presidente Napolitano l’imperatore Franz Joseph, e ad Eugenio Scalfari il mitico Karl Kraus. Se restaurazione deve essere, allora che lo sia con grande stile.

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E poi c’è Renzi, che  va un casino quest’anno. Oramai lo votano tutti, pure la sinistra che diceva che non era abbastanza di sinistra perché è amico dei banchieri e perché non gliene po’ fregà di meno dell’articolo 18. Lo hanno votato tutti perché è chiaro quello che dice, perché vincerà le elezioni e perché ha capito che i programmi non servono a niente. I tremila punti programmatici fatti apposta per tenere insieme raggruppamenti improbabili di persone ed interessi sono stati finalmente abbandonati e lasciati a marcire nell’ingloriosa storia recente del centro sinistra. Finalmente Renzi dice chiaro e tondo quello che pensa del paese e del suo futuro: il niente. Sempre meglio del qualcosa bofonchiato in campagna elettorale a mezza bocca da Bersani, che come direbbe il buon Freud non era padrone nemmeno a casa sua dovendo obbedire alle tre istanze dell’Es (Sel), del Super Io (l’Unione Europea e Napolitano, con le loro sadiche   richieste sadiche di stabilità, ossia di imbarcare Monti) e della realtà esterna (i drammi economici del paese e delle casse dello Stato). Il niente renziano è  invece dotato di una sua funzione negatrice, che ravviva glia animi delle persone e crea ottimismo generalizzato. Di lui si dice che non è di sinistra. Il brutto è che, dicendolo gente tipo D’Alema, qualcuno ha finito per non crederci.

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E poi abbiamo il Movimento 5 stelle. Dopo nove mesi di ammorbamento imperiale su Grillo fascista, Casaleggio cospiratore mondiale ed i rimborsi elettorali da restituire, è oggi possibile tirare provvisoriamente le somme di questo innovativo esperimento politico. Stando a quanto possibile leggere nei pochi articoli decenti pubblicati recentemente e a quanto dicono alcuni loro colleghi dotati ancora di mente  e senso critico, i grillini non sono una manica di capre ignoranti ed inette. O almeno, non sono peggio  di ciò a cui eravamo abituati. Ad esempio, lavorano molto bene nelle commissioni, lontani dai riflettori e dalle isterie di Grillo. Non a caso, la onorevole e vincente proposta di abolizione del reato di immigrazione clandestina è stata presentata in Commissione Giustizia del Senato dai cittadini a 5 stelle Maurizio Buccarella ed Andrea Cioffi, i quali sono stati premiati da Grillo con la solita sclerata a difesa del programma e dell’impegno con i cittadini, che non comprendeva nulla che avesse a che fare con l’immigrazione e robbe del genere. Il problema dei grillini è proprio questo, cioè la necessità di rappresentare una rabbia ed un veleno troppo variegati, troppo complessi, che è possibile tenere uniti nelle battaglie contro la kasta ed  a favore del reddito di cittadinanza e dell’ecologia, ma che si sfaldano una volta usciti dal rassicurante e limitato recinto del “programma”.  L’altro grosso limite del Movimento consiste nell’aver incoraggiato una forma di partecipazione per certi versi innovativa ed incoraggiante, per altri invece disastrosa e autodistruttiva. Suggerisco a chi ha lo stomaco forte di inoltrarsi nella lettura dei commenti ai post del blog di Grillo e del Fatto Quotidiano per farsi un’idea di quello che la ggente intende oggi per “informarsi” e “partecipare”. Una sfilza continua ed uniforme di formule arroganti ed irritanti (“Meditate gente, meditate..”, “Civati chi? Quello che alle medie ha copiato il compito di educazione tecnica al compagno di banco?”, ect…), una conoscenza approssimativa dei fatti, un rifiuto comprensibile ma spesso ingiustificabile della complessità dei problemi, un discorso che si dichiara antipartitico, ma che in realtà ha sempre sulla bocca i soliti nomi, le solite facce, il solito racconto fotoromanzato della realtà in cui ai personaggi viene attribuito un potere d’azione illimitato (Letta ha fatto questo, questo è colpa di Renzi, Bersani non ha fatto quello). Questo livello infimo della discussione è uno degli argomenti più potenti contro la democrazia del web. Nota positiva di fine anno: la protesta dei forconi ha messo a tacere tutti quei parallelismi creativi tra i 5 stelle ed il fascismo. Per come sta messa la società italiana, Grillo non è ancora il male peggiore che potesse capitarci. Chiunque ha ascoltato mezzo secondo di discorso dei capi dei forconi, sa a cosa mi riferisco.

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Infine, una parolina sulla “sinistra”. Non è facile essere di sinistra durante la crisi. L’amato –  odiato popolo quando le cose vanno male fatica a seguire certi ragionamenti complessi sulla realtà sociale e sulle dinamiche storiche, figuriamoci quanta voglia ha di assecondare i deliri tattici di Tizio e Caio. Il discorso è indirizzato soprattutto a Sel, ossia il piccolo partito di cui ho la tessera e che nel mio piccolo rappresento nella mia medio piccola realtà locale. Il mio messaggio populistico di Natale è: basta con questa storia di dover salvare il PD da se stesso. Il PD a suo modo sta benissimo: ha eletto un segretario per una volta amato e popolare, esprime il primo ministro e se non cede alle sue pulsioni di morte vincerà le prossime elezioni. Nessuno uscirà dal PD, perché la nave si abbandona quando affonda, e non quando è l’unica baracca che resta a galla nel delirio della politica italiana. Di fronte a questo incontrovertibile dato di fatto, non c’è alternativa: dentro o fuori. Se si pensa che l’alleanza col Partito Democratico va fatta sempre, comunque ed ad ogni condizione, allora entriamoci dentro a sto PD e basta con questa storia una volta per tutte. Se invece si pensa che Renzi è lo schifoso segretario di destra di una formazione di centro, allora che si faccia una sinistra unita con Rodotà, Landini e compagnia bella, magari evitando di accollarci sulle spalle il carico d’ansia degli infiniti postumi della morte di Rifondazione Comunista. Però per cortesia una delle due, che è già tardi. “Bisogna fare presto”, come direbbe Barbara D’Urso, che cogliendo l’occasione salutiamo con affetto. Auguri Barbara!!!!!!

P.s. è purtroppo molto triste la storia della telefonata di Vendola. Non per il fatto che un Presidente di Regione chiami un dirigente della più grande fabbrica pugliese per cercare una mediazione, rivelatasi a posteriori impossibile, tra diritto alla salute e diritto al lavoro, quanto per aver dato la spiacevole idea che alla fine il potere è una cosa che ti plasma a suo piacere appena ci entri in contatto. Sebbene la crocifissione mediatica orchestrata dal Fatto Quotidiano faccia vomitare- il titolo “Vendola ride dei tumori” è una vergogna che dà l’idea di quanto l’indipendenza di pensiero non sia sinonimo di intelligenza e competenza -, i toni del presidente con il signor Archinà hanno lasciato un cattivo profumo  che non sarà facile far dimenticare. 

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Prima di inviarvi i miei auguri asburgici, vorrei salutare con affetto Silvio Berlusconi, ancora protagonista del 2013.. Delle sue gesta nostri eredi leggeranno nei libri di storia dell’arte, piuttosto che nei libri di storia.

 

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La noia della politica

Da quando il governo Letta è entrato in carica, la politica italiana è diventata noiosa come mai lo era stata in precedenza. I giornalisti e la pubblica opinione rimpiangono addirittura l’austero esecutivo Monti, che perlomeno col suo impietoso senso del dovere aveva dapprima eccitato, poi fatto indignare gli italiani. I motivi del passaggio dalla prima alla seconda fase restano ancora ignoti. Invece con Letta non si ride, non si piange, ci si indigna un po’ per colpa della Ministra Idem, poi però la furbetta viene dimessa con tanta fiducia verso la sua “limpidezza, la correttezza e rigore morale” (Letta 24/6/2013), e quindi si ritorna allo stato anaffettivo di base. Per fortuna la figura dell’altra ministra straniera Kyenge offre qualche sfogo pulsionale ai leghisti, che sono sempre meno e sempre più repressi dal contatto con la civiltà e le sue ipocrite convenzioni. Chissà quanta energia avranno scaricato i militanti di fronte alle dichiarazioni di Zaia, il quale ha invitato la ministra a visitare una ragazza veneta violentata da un extracomunitario, portando magari ufficialmente le scuse di tutti i negri immigrati i quali, in quanto tali, sono evidenti corresponsabili dell’accaduto. Ma aldilà di queste scintille di vitalità, le viscere italiane che a febbraio – marzo sembravano esplodere di rabbia riposano oggi nei rispettivi ventri.

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D’altronde, è appena cominciata la vita parlamentare vera e propria, con le mozioni, gli emendamenti, gli interventi in aula, le commissioni e tutte queste cose noiose che piacciono solo ai vecchi e a quelli del PD, per non parlare dei vecchi del PD che ne vanno pazzi. Un peccato, perché il Parlamento è il cuore della vita democratica del paese, il luogo sacro dove la maggioranza esercita solennemente  il suo diritto – dovere  di bocciare senza pietà  ed a prescindere le proposte della minoranza, oppure di riscriverle da cime a fondo in modo da eliminare ogni pericolosa parvenza di senso e contenuto.  E’ il caso del reddito di cittadinanza e degli F 35, due proposte provenienti da Sel e 5 stelle che il PD ha rispettivamente affossato ed aggirato,  mostrando come una possibile futura intesa con i grillini e la sinistra sia possibile solo a condizione di limitare il programma di governo all’abolizione delle province con meno di 16 abitanti ed alla dichiarazione di ineleggibilità di Borghezio nel collegio di Catanzaro.

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E se il Parlamento non è accattivante, cosa dire dell’attività dell’esecutivo?  Un paio di giorni fa il governo Letta ha presentato il piano per i giovani  ed il lavoro del 2013. Un mattone di tre quarti di pagina, con un numero infinito di punti – cinque – , uno schiaffo alla semplicità ed alla trasparenza. Ora basta. In polemica con l’arroganza e la prolissità della Kasta, Grillo ha scritto un post velenoso basandosi non sulla lettura diretta della proposta di Letta – ora basta! -, ma sul resoconto fornitogli da un idraulico ubriaco incontrato al bar sotto casa. Il comico genovese aveva incolpevolmente frainteso che gli incentivi alle assunzioni fossero destinati a giovani tra i 18 ed i 29 anni dotati delle tre caratteristiche assieme: essere disoccupati da 6 mesi, avere almeno una persona a carico, avere un grado d’istruzione non superiore alla terza media.  Una congiunzione altamente improbabile, che secondo i consulenti dei  5 stelle sarebbe realizzata soltanto nella persona del neo acquisto della Juventus Carlitos Tevez e di due gemelli siamesi di Novara, licenziati un anno fa dalla Vodaphone e che risultano essere l’uno a carico dell’altro. A queste insinuazioni  Letta ha risposto molto piccato, dato che nel testo è scritto esplicitamente che basta una sola delle tre condizioni per poter usufruire degli incentivi. Lo scambio polemico  ha raggiunto il suo culmine nella reciproca accusa di “Pinocchio”, in realtà poco adeguata a Grillo il quale forse è meglio rappresentato da mastro Ciliegio. Purtroppo, neanche questa polemica ha accesso l’animo degli italiani. Se fosse stato coinvolto Berlusconi, le cose sarebbero andate diversamente. Il Cavaliere avrebbe tolto la P a “Pinocchio”, ci avrebbe messo al suo posto una bella “F”, e l’opinione pubblica si sarebbe scatenata: “omofobo”, “no, voi siete ipocriti”, “abbassiamo i toni”, “basta finocchi”, etc… Non a caso, il padrone del gioco, il genio della comunicazione  è sempre lui.

Francesco Boccia. Ritratto di artista giovane emergente.

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Pochi giorni fa Silvio Berlusconi è stato condannato in appello per il caso Mediaset. Niente di nuovo, niente di che. Di sicuro, niente che possa intaccare la calma olimpica del Presidente nel suo ultimo spettacolare travestimento: lo “statista responsabile”. E’ questo l’esito ultimo della travolgente carriera artistica di Silvio, che al pari del suo collega britannico David Bowie ha attraversato i decenni senza invecchiare grazie a continui ed imprevedibili cambi di abito e di identità. Di fronte alla condanna ed alle durissime motivazioni, l’impeccabile “statista responsabile” ha  bacchettato la magistratura comunista che perseguita gli innocenti come lui ed Enzo Tortora, ma infine ha volato alto per il bene del paese. L’Italia ha bisogno di un governo, e lui su questo ha contratto un patto che certo non  scioglierà per difendere i suoi interessi personali. Perfetto, come al solito.

Purtroppo, l’Italia è un paese democratico. Questo significa che i grandi artisti devono condividere il palco della politica con personaggi secondari e semplici comparse. In questi ultimi mesi, il pubblico ha imparato a conoscere un bravo caratterista di  modeste speranze, ma di sicuro avvenire. Si chiama Francesco Boccia, ed il suo ruolo principale è quello del moderato secchione e pacato, che perde ingiustamente per due volte le primarie pugliesi contro il populista Vendola, ma infine si riconquista una certa dignità grazie allo sposalizio con l’avversaria politica Nunzia De Girolamo ed all’ascesa al potere di Enrico Letta, influente signore di cui è il fedele braccio destro.  Una bella storia italiana, insomma. Le grandi intese lo portano alla ribalta, ed è lui che il giorno della sentenza su SkyTg24 tranquillizza il Paese in diretta: l’esito giudiziario non influenzerà la tenuta del governo.

Da semplice spettatore, ho assistito in diretta alle dichiarazioni di Boccia e le ho apprezzate. Sono le cose giuste da dire per un giovane moderato del PD, che mica è così irresponsabile ed immaturo da smarcarsi dall’inedito alleato, nel frattempo tramutatosi in “statista”, solo perché è stato condannato per il reato che tutta la sinistra gli ha rinfacciato negli ultimi venti anni. Prima il dovere, poi semmai forse un giorno il piacere. Ma Boccia, a cui forse i panni del semplice caratterista vanno stretti, prende il volo e si lancia nella teologia mistica. Con aria ieratica, spiega all’intervistatore che la frase “l’esito giudiziario non influenzerà la tenuta del governo” non significa soltanto che il PD non mollerà l’alleato perché condannato. Quello è scontato, ci mancherebbe. Al contrario, con quella parabola  si vuole testimoniare agli italiani che il PDL non agirà d’impulso, e resterà al governo nonostante la condanna del suo leader.  Il messaggio è chiaro: la redenzione è possibile. Basta credere fortemente in Dio, nell’immortalità di Napolitano e nelle pulsioni di morte degli ex DS. Ve lo giuro, alla fine avevo le lacrime agli occhi. E da semplice spettatore, ho immaginato che fosse bastato un semplice sguardo, lo sguardo mite da uomo di Dio di Boccia, a trasformare tre malvagi come Cicchitto, Gasparri, Verdini in tre saggi e responsabili garanti del futuro della patria. Magie della grande fiction italiana.

La Kasta e il Potere

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Magari il potere fosse concentrato in un solo posto – il Palazzo – , in una sola persona – il Presidente – , in un solo mestiere – il politico. La maggior parte degli italiani sembra pensarla così, e magari avessero ragione, perché in tal caso basterebbe sbarazzarsi della kasta  per vivere liberi e felici. Purtroppo, aldilà dell’evidente stato pietoso in cui versano oggi i partiti, le cose non stanno così. Il potere ha potere perché riesce a stabilirsi dove meno te lo aspetti. Te lo ritrovi nelle relazioni lavorative, nelle relazioni intime, addirittura nel tuo corpo quando senti a pelle che non sei adeguato agli standards della società figosa, quando provi disagio entrando in contatto con “la gente che conta”, quando provi soggezione per qualcuno che non se la merita. Il potere è un diavolo che si nasconde nei dettagli, e che trova il suo habitat naturale nelle conversazioni a tavola tra professori universitari che parlano solo di gossip accademico, nei pranzi di lavoro monopolizzati dai discorsi sulla carriera, nell’invidia e nell’odio dei poveracci verso chi è poco meno poveraccio di loro.

Si tratta di esperienze e situazioni che tutti sperimentano ogni giorno, festivi inclusi. Eppure fatichiamo così tanto a capire che il “sistema” tanto odiato e tanto criticato lo abbiamo incorporato e spesso  lo riproduciamo a nostra volta, magari a discapito di qualche sfigato o addirittura a  discapito nostro. Aldilà delle scelte elettorali, è ora di capire che questa storia della Kasta come detentrice del monopolio del potere è una versione dei fatti che fa comodo, perché ci spinge a concentrarci sugli scontrini dei parlamentari invece di pensare a tutte le volte in cui nella nostra esistenza quotidiana ci rendiamo complici passivi o attivi del sistema che con ferocia denunciamo tramite sentite dichiarazioni nei social networks. Mandiamoli a casa tutti, sostituiamoli  tutti – magari con qualcuno dotato di una minima cognizione di causa-, rendiamo il Parlamento trasparente e tutte queste robe qui, ma cominciamo anche a riflettere sul nostro agire quotidiano, che con troppa faciloneria e un pizzico di paraculaggine cataloghiamo in automatico nella casella: “Comportamento immediatamente buono e giusto del cittadino  innocente membro della società civile”.

“Ruby – Kabobo”. Un’opera d’arte contemporanea.

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Silvio Berlusconi è il più grande artista italiano contemporaneo vivente. Ogni sua azione, ogni sua dichiarazione, ogni sua mossa alza di qualche centimetro l’asticella dell’imprevedibile. Accanto a performance teatrali di matrice più tradizionale – vedi lo show ad Annozero di fronte agli spaesati ingenui Santoro e Travaglio -, Silvio non disdegna la sperimentazione e l’utilizzo di medium innovativi. Pensiamo solo alla forma documentario, stravolta in senso surreale e grottesco nel docufilm “La guerra dei vent’anni”, il capolavoro dedicato alle persecuzioni dei pm milanesi nei confronti del Cavaliere  che Canale 5 con grande coraggio intellettuale ha mandato in onda in prima serata. Altro che la Rai degli anni Sessanta con Moravia e Pasolini. Un coraggio non premiato dal popolino, che gli ha preferito il tepore familista di “Un medico in famiglia ”, ma molto apprezzato dalla critica internazionale, per una volta unita nel lodare “il superamento del monopolio della narrazione realistica giornalistica attraverso la sua riproposizione caricaturale e parossistica” (Le Monde, 13/5/2013). Ma forse ancora più audace è l’opera d’arte collettiva messa in scena nei mezzi di comunicazione italiani dall’intero Pdl sotto la guida del maestro di bottega Silvio da Arcore. La procedura di base è semplice e geniale: individuare due eventi, uno preso dal gossip politico ed uno dalla cronaca nera, inserirli in uno stesso ambito concettuale, per poi mettere questo ambito in cortocircuito attraverso dichiarazioni congiunte simultanee e bipolari.  E’ quanto accade esemplarmente in “Ruby -Kabobo” (2013, inchiostro su carta, schermi al plasma, monitors lcd), vero e proprio manifesto della arte anti concettuale. Berlusconi ha scelto due eventi concomitanti:  la requisitoria della Boccassini nel caso Ruby in cui si fa accenno alla furbizia orientale della giovane ex minorenne, e il raptus omicida del ghanese Kabobo che ha ucciso a picconate tre passanti innocenti in preda ad un attacco psicotico. I due eventi sono stati raccolti intorno ad un concetto, il razzismo. Su questa base concettuale, gli aiutanti di bottega hanno cominciato a rilasciare dichiarazioni in simultanea divise secondo due assi significanti opposti, ossia razzismo cattivo/razzismo buono. Ognuno di questi assi viene accoppiato ad un evento, in modo tale che il Pdl nella stessa giornata rilascia due tipi di comunicati: uno contro la Boccassini, stigmatizzandone gli inaccettabili toni razzisti sulla furbizia orientale di Ruby, uno contro la sinistra, che difende i clandestini che poi ammazzano le persone in strada a caso. Ecco una breve rappresentazione plastica del procedimento.

 Brunetta: “Da Boccassini requisitoria razzista”.

Gelmini: “Pisapia abbandona per un giorno i temi filosofici e apre all’impiego dell’esercito per garantire sicurezza ai milanesi, meglio tardi che mai”

Aracri:  “Aver definito la ragazza marocchina esempio della ’furbizia orientale’, è un atto gravissimo tanto più se compiuto da un magistrato durante un processo così delicato e così mediatico. Inoltre, consiglierei alla Boccassini di informarsi meglio in geografia, considerando che il Marocco fa parte del Maghreb (Occidente), nome con il quale gli arabi designano cioè i paesi dell’Africa settentrionale, a ovest dell’Egitto, spesso utilizzato in opposizione a ’Mashriq’ che sta per ’Oriente’. Se non fossero razziste, le affermazioni della Boccassini sarebbero alquanto imprecise.”

Gasparri: “Il reato di immigrazione clandestina va rispettato per non consegnare le nostre città alla criminalità ed alla violenza ed evitare episodi drammatici come quelli accaduti negli ultimi giorni”.

Il geniale accostamento tra i due tipi di comunicato, riprodotti in contemporanea ed in continuazione dai mezzi d’informazione, destruttura il concetto di razzismo nelle sue due polarità positiva – negativa. Il significato dell’opera d’arte secondo è dunque inequivocabile: ogni concetto è contemporaneamente i due opposti che ospita in se stesso. Dunque, secondo il movimento anti concettuale berlusconiano  i due opposti del concetto possono essere usati a piacimento, addirittura in contemporanea, a seconda delle esigenze del momento. Il razzismo è terribile e legittimo, giusto e sbagliato, buono e cattivo e noi con questo possiamo giocare liberamente in tv, nei giornali, in internet. Berlusconi porta così alle estreme conseguenze la crisi novecentesca del linguaggio e della razionalità, mettendone in luce gli aspetti creativi e ludici. E’ lui il più grande artista italiano contemporaneo vivente.   

 

Il rituale della dichiarazione. Istruzioni per l’uso.

Per la gioia di tutti e tutte, la politica italiana è percorsa da un irrefrenabile desiderio di cambiamento. Non solo il 5 stelle, non solo Renzi, ma ora abbiamo addirittura un governo di giovani. Fantastico. Tuttavia, ci sono dei  rituali della politica che sembrano resistere ad ogni moda e rivoluzione. Uno di questi, è l’immortale rito della dichiarazione. Di fronte ad un evento di una certa importanza, i rappresentanti di partiti e movimenti si sentono in dovere di commentare l’accaduto attraverso un comunicato stampa o, ancora meglio, tramite un supporto audiovisivo. Ovviamente, non ci si inventa “dichiaratori” da un giorno all’altro. Come in ogni rituale che si rispetti, esistono delle regole non scritte a cui bisogna obbedire, pena l’esclusione dalla rassegna giornaliera delle dichiarazioni. Eccone un breve elenco.

1. La dichiarazione deve uscire ogni volta che succede “qualcosa”. Ora, come capire se un accadimento è degno di essere considerato come “qualcosa”? Tendenzialmente, la prima schermata del sito della “Repubblica” – ad esclusione della parte destra – contiene tutti i qualcosa degni di essere presi in considerazione. In tempi recenti, anche  Facebook ha cominciato a svolgere un ruolo importante in questo senso, dando voce ad  una massa sterminata di liberi dichiaratori sena compromessi, che tuttavia commentano essenzialmente le notizie della prima di “Repubblica”.

2. Come cominciare una buona dichiarazione?  I comunicati stampa esordiscono quasi sempre con un aggettivo, del tipo: “Irrispettose le affermazioni di x”, “Inqualificabile il gesto di z”, “Irricevibile la proposta di y”. In calo l’incipit moraleggiante con l’avverbio (“Male la votazione in commissione bilancio”, “Bene le dichiarazioni del sindaco”), mentre in grande ascesa è il modello definitorio stile Grillo, in cui la copula viene elisa a favore di una forma interrogativa retorica – ad esempio: “Caio? Un morto”, oppure:”Il governo Tizio? La morte della democrazia”.  Rimane, ma ad appannaggio esclusivo del clero, del Presidente della Repubblica e di alcuni megalomani sparsi nell’arco parlamentare, l’uso del verbo all’imperativo, incastonato nel sempreverde richiamo: “I fatti di X (dove X sta per un nome proprio di città italiana) siano monito per la politica”.

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3. Quanto deve essere lunga una dichiarazione? Poco, pochissimo, quasi nulla se possibile. Non va mai perso di vista l’obiettivo: apparire in 6/7 secondi di TG5 o di Tg1, a pranzo o a cena. Bisogna dunque decidere quale parola dovrà rimanere in testa agli italiani mentre affogano il capo in una scodella di bucatini. Il centrodestra riesce bene in questo difficile esercizio di sintesi, mentre gli esponenti della sinistra notoriamente entrano in difficoltà se costretti ad esprimere la propria opinione in meno di 15 cartelle. Per ovviare a questa lacuna, nell’ultima campagna elettorale il centrosinistra ha sperimentato una tecnica comunicativa di origine zen, che consiste nel parlare ed allo stesso tempo dire il nulla. Una strategia perdente dal punto di vista elettorale, ma molto apprezzata dai centri di meditazione new age, che hanno sostituito le registrazioni delle grida dei delfini con nastri analogici contenenti dichiarazioni di Fassina.

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4. Infine, la regola aurea: dichiarare sempre. Se non si sa cosa dire, aspettare la dichiarazione dell’alleato o dell’avversario e commentarla. Se non si vuole commentare, commentare comunque definendo “incommentabile” l’accaduto, oppure rilasciare un “no comment”.  Se si pensa che il migliore commento sia il silenzio, scrivere un bel comunicato in cui si chiede “silenzio”. Perché non bisogna mai lasciare un evento senza didascalie, altrimenti rischia di parlare da solo. E se un evento parla da solo, sottolineatelo sempre. Con una bella dichiarazione, mi raccomando.

 

 

La politica senza mediazioni.

Il successo del Movimento 5 Stelle alle elezioni di Febbraio è stato un evento choc. Tutti immaginavano  un sommovimento, tutti vedevano lo tsunami tour trascinare in piazza folle da stadio, mentre gli altri ex-agitatori di folle riempivano a malapena le sale conferenza degli hotel a tre stelle. Nessuno tuttavia poteva ipotizzare uno schianto tanto fragoroso della sinistra in tutte le sue variegate e rissose componenti. Il forfait di Bersani e Vendola ha corso di pari passo con la fragorosa débâcle degli arancioni di Ingroia, mandando definitivamente a quel paese la topografia politica con cui noi tutti siamo cresciuti. La metafora idraulica del “perdere voti a sinistra” è oramai un’espressione d’antan che rimanda ad una mappa rivelatasi anacronistica. L’incoscienza dei grillini ha scoperto un territorio che le carte portolane del centro sinistra non prevedevano, e su queste terre emerse ha sbattuto il muso il progetto dell’Italia “bene comune”. Un urto imprevedibile solo  nelle dimensioni, in quanto ampiamente annunciato da alcuni inequivocabili segnali.  In particolare, un elemento decisivo era nell’aria da tempo, ed è stato esorcizzato e sottovalutato dagli sconfitti: il bisogno di immediatezza ed il disprezzo verso la mediazione politica in se stessa.

Non serve essere un asso delle scienze sociali per mettere in correlazione il perdurare di una crisi economica sempre più grave e profonda con il crescere dell’insofferenza delle persone verso gli stanchi rituali  messi in atto dai partiti. Ma oltre a tutto ciò, è assolutamente istruttivo osservare la traiettoria dell’antiberlusconismo italiano nell’ultimo decennio.  Nei primi anni del 2000, gli antiberlusconiani  scendevano in piazza agganciandosi a questioni di respiro internazionale – la guerra in Iraq, la globalizzazione – oppure esprimendo rivendicazioni classiche della sinistra –  i tre milioni della piazza della CGIL contro la minacciata abolizione dell’articolo 18. Oggi le piazze le riempie Grillo, il quale con una mossa geniale ha allargato il bersaglio dell’insofferenza dal solo Berlusconi all’intero sistema dei partiti, senza distinzione tra destra e sinistra. E’ evidente come le due anime dell’antiberlusconismo militante abbiano preso negli ultimi anni  traiettorie sempre più divergenti. Da un lato, è cresciuto ed è stato alimentato un sentimento crescente di indifferenza e di indignazione verso partiti, mediazioni, alleanze, compromessi, involuzioni retoriche e complessità. Dall’altro, si è configurato un centrosinistra egemonizzato dal PD delle riforme e della responsabilità di governo, che ha sacrificato le vittorie comunali della primavera arancione del 2011 ed il trionfo al referendum della stessa estate – ultimi punti di contatto con il popolo della rabbia e dell’ indignazione, sempre più rappresentato dalla prima anima – sull’altare dello spread e del governo montiano  d’emergenza. In mezzo, il nulla della sinistra radicale, ed i disperati tentativi da parte di Sel e Vendola  di spostare a sinistra l’asse di un futuro governo che, a quanto pare,  non esisterà mai. La vittoria della prima anima sulla seconda è così presto spiegata.

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Beppe Grillo è diventato il portavoce di una massa di cittadini, di un popolo che chiede qualcosa e lo vuole subito. Arroccata nella difesa delle istituzioni in quanto tali ed ad ogni livello, la sinistra ha finito per rifuggire non solo dai populismi, ma addirittura dal concetto stesso di “popolo”. Un concetto che sappiamo essere ambiguo, pericoloso, che coagula in modo parziale e fazioso istanze e bisogni reali  assieme a pulsioni asociali e reazionarie. Allo stato attuale, sembrano condivisibili le critiche rivolte alla conformazione che il Movimento 5 stelle ha dato al suo popolo. Hanno ragione i Wu Ming quando scrivono che i grillini hanno occupato lo spazio dell’insofferenza e della ribellione verso il sistema lasciandolo vuoto, vale a dire annacquando la portata del conflitto sociale attraverso il discorso qualunquista – uso il termine in senso tecnico, e non spregiativo: l’Uomo Qualunque nel 1946 diceva a tal proposito le stesse identiche cose –  della casta cattiva che circuisce la gente buona, socievole e laboriosa. E’ illuminante Ida Dominijanni quando individua nella traduzione immediata delle competenze individuali in competenze politiche – l’oramai celebre sommelier che vuole occuparsi di agricoltura, l’impiegata nel settore export che si dedicherà alle relazioni internazionali – il tratto più marcatamente antipolitico del discorso a 5 stelle, all’interno del quale non trova più alcuno spazio la politica come mediazione, ossia la politica in quanto tale. A che serve la mediazione, se le risposte alla crisi sono già lì, nei cittadini, nella gente comune tenute per decenni all’oscuro di quello che succedeva nel palazzo? A cosa serviranno mai un deputato ed un senatore, se non ad osservare dall’alto e denunciare le malefatte della casta ed a farsi da tramite trasparente della volontà e saggezza popolare? E pazienza se la società contemporanea è dominata in lungo e largo da un sistema economico ingiusto e feroce, che lascia in mezzo ad una strada le energie sprecate di quel 40% dei giovani che non trova lavoro, giocoforza costretti a pesare sulle spalle delle loro famiglie con contraccolpi emotivi ignorati da tutte le sottili analisi della crisi e del precariato. Il disprezzo per la mediazione nasconde dietro i toni violenti e ribelli un’adesione conformistica ad una realtà sociale che certo non cambierà magicamente da sola una volta eliminata l’ingordigia della casta. Ma c’è di più: l’esaltazione incondizionata dell’immediatezza è pericolosa e conservatrice, in quanto individua nella società allo stato attuale, per come è adesso, la soluzione istantanea ai problemi della società stessa.  Il problema dunque non è il populismo, quanto piuttosto la connotazione innocua che la sua declinazione grillina ha preso nei confronti di un potere che non esiste solo nei palazzi della politica, ma anche e soprattutto nelle relazioni economiche, nelle relazioni personali ed impersonali ed addirittura in quelle affettive. Ma c’è un fattore che non va sottovalutato, e che non può rimanere sottotraccia.

Da quanto detto finora sembra infatti che elezioni del 2013 abbiano visto fronteggiarsi da un lato i due populismi antipolitici di Grillo e Berlusconi, dall’altro il centrosinistra in quanto unico ed ultimo custode della nobile virtù politica. In realtà, ad andare in scena  nei brevi mesi di campagna elettorale non  è stato un conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, tra pulsioni e ragione, a meno che non sia voglia dare a quest’ultimo termine un’accezione negativa. Piuttosto, e qui sta la radice della sconfitta a tutto campo di Bersani e Vendola, la sinistra ha saputo rispondere alle semplificazioni dei suoi avversari aderendo ad  un’altra forma di immediatezza , che potremmo definire immediatezza della responsabilità. Ponendosi come unico nobile difensore delle istituzioni nazionali ed europee, della governabilità e della civiltà democratica dei partiti, la sinistra ha finito per prendere immediatamente le parti del potere. Non è scesa in campo, non si è sporcata le mani con l’odio ed il rancore dilaganti, non ha mediato tra carnefici e vittime della crisi, dove mediare non significa porsi nell’imparzialità di una giustizia bendata e super partes, ma al contrario difendere e sostenere  i più deboli dai responsabili della crisi, che la crisi stessa ha paradossalmente reso più esigenti e più sfacciati. Ora, è bene sapere che la strada della mediazione  è dolorosa e faticosa. E’ emblematico in questo senso l’episodio della visita della presidentessa della camera Boldrini a Civitanova Marche il giorno dei funerali del marito, moglie e cognato suicidatisi per la vergogna del dover chiedere aiuto ai servizi sociali del loro comune. Un gesto dovuto e coraggioso che ha suscitato tra le altre cose contestazioni rabbiose e sconnesse, veritiere nella misura in cui mostrano come sta messa una parte crescente della società italiana: impoverita, impaurita, incazzata e  diffidente oramai verso ogni istituzione in quanto tale, legittimata nei suoi atteggiamenti dal potere simbolico della parola di Grillo. Se la sinistra ha un senso e un compito oggi, è esattamente quello di mediare in contesti infuocati come quello di Civitanova, tenendosi a debita distanza dall’immediatezza grillina, secondo la quale ogni incazzatura è legittima  e giusta in quanto tale ed il conto va sempre imputato alla casta, e dall’immediatezza della “responsabilità”, che tratta la rabbia sociale come uno sfogo adolescenziale al quale si deve rispondere con un laconico e severo: “non si può fare altrimenti” . Senza mediazioni,  l’unico popolo possibile sarà grillino, o berlusconiano.  E lì saranno guai seri.