Negli anni 70, alcuni esponenti della Scuola di Palo Alto – in particolare Watzlawick, Beavin, Sikorski e Mecia – allestirono un esperimento allo scopo di comprendere i meccanismi di formazione e protezione di un capro espiatorio all’interno di una famiglia. In soldoni, l’esperimento funziona così. Ogni membro della famiglia scrive in forma anonima un commento negativo indirizzato a ciascun altro membro della famiglia. Successivamente, i commenti negativi vengono fatti leggere a tutti i membri della famiglia, e si chiede a ognuno: secondo te, a chi è destinato questo commento negativo? Il capro espiatorio è il membro della famiglia al quale viene attribuito il maggior numero di commenti negativi che in realtà erano stati indirizzati ad altri membri.
Sempre intorno agli anni 70’, una concezione meno formalizzata e più filosofica del capro espiatorio è stata invece avanzata da René Girard. Secondo Girard il capro espiatorio è l’individuo verso il quale la comunità dirige le sue pulsioni violente e distruttive. Questa violenza costitutiva è dovuta al fatto che il desiderio che muove le azioni individuali è mimetico, ossia imitativo: si desiderano le cose che gli altri desiderano. Attraverso il contagio imitativo, un numero sempre maggiore di individui finisce per desiderare la stessa cosa, entrando così in diretta competizione con gli altri. Da questa competizione deriva quella violenza che deve essere diretta verso un capro espiatorio allo scopo di salvare la comunità dalla guerra di tutti contro tutti, e quindi dall’autodistruzione.
Una terza figura del capro espiatorio la troviamo nel celebre testo di antropologia evoluzionista Il ramo d’oro, scritto da James Frazer e pubblicato per la prima volta nel 1890. Frazer racconta di una tribù africana che eleggeva il proprio capo in un modo apparentemente singolare. Dopo aver scelto con accuratezza il proprio leader, al termine dei festeggiamenti collettivi di rito il malcapitato veniva legato ad un albero e massacrato a colpi di sassate. Al termine della cerimonia, la tribù ricominciava la selezione del nuovo capo, che a sua volta veniva festeggiato e lapidato, e così via all’infinito.
E’ difficile che tutto quello che sia successo a Roma possa essere ridotto alla logica del capro espiatorio. L’intreccio degli interessi politici, partitici, economici e criminali che costituiscono la realtà della Capitale non può essere compreso attraverso una semplice analogia con alcuni esempi tratti dalla psicologia, dalla filosofia e dall’antropologia. Tuttavia, le tre figure descritte sopra possono aiutarci a capire come Ignazio Marino, ormai ex sindaco di Roma, sia stato il capro espiatorio di un sistema che, al fine di preservarsi, ha deciso di mantenere il proprio equilibrio espellendo, o sacrificando, un elemento che allo stesso tempo risultava interno ed estraneo. Interno, in quanto attore – volente o nolente – dei giochi politici di potere. Estraneo, in quanto incapace di leggere le regole non scritte del potere della capitale.
Marino è evidentemente un capro espiatorio nel senso impiegato da Watzlawicz e colleghi. Come nell’esperimento familiare descritto prima, all’ex sindaco sono state attribuite tutte le critiche che normalmente vengono rivolte agli altri soggetti politici romani. Come Alemanno, Marino è stato definito “colluso”, sebbene le carte di Mafia Capitale sembrino dimostrare il contrario, o quantomeno sembrino delineare due livelli di collusione assolutamente imparagonabili. Al pari di Renzi, Marino è stato definito come “poco propenso al dialogo”. Infine, come i 5 stelle Marino è stato spesso apostrofato come “onesto ma scemo”. Nel senso specifico di Watlawicz, l’ex sindaco ha rappresentato così il perfetto capro espiatorio della grande famiglia della politica romana e italiana, la grande occasione per tutti di liberarsi delle attribuzioni negative ricevute e di riversarle su di un unico individuo. Sul fatto che poi Marino fosse veramente “colluso”, “poco propenso al dialogo” e “scemo”, la discussione è aperta, ma ciò che conta è il meccanismo, che è appunto con ogni evidenza un meccanismo di produzione di un capro espiatorio.
Anche l’interpretazione di Girard sembra poter essere applicata agevolmente all’affaire Marino. In questo senso, la comunità violenta è evidentemente il PD, un gruppo oramai completamente agito dal desiderio mimetico del potere. Un potere che tutti desiderano, tutti vogliono, e che tutte le correnti più o meno variabili si contendono senza ormai alcun tipo di mediazione argomentativa. Un giorno il commissario del PD romano Orfini si alza e afferma che schierarsi contro il sindaco significa assumere la stessa posizione della “Mafia”. Qualche settimana dopo, lo stesso Orfini avalla la destituzione di Marino, autoaccusandosi così implicitamente di collusione ideologica con la “Mafia”. Un comportamento incredibile, in apparenza. Ma la perdita plateale della coerenza è nulla, rispetto all’impedibile occasione di distruggere il sindaco, di potere esprimere finalmente senza limiti la violenza interna del branco allo scopo di cementare l’unità del branco stesso. Non è forse un caso che nessun esponente del PD abbia esplicitamente difeso il proprio sindaco nel momento decisivo, e che addirittura tutti i consiglieri democratici abbiano rassegnato in contemporanea le dimissioni al fine di “porre fine all’agonia di Marino” . Un’eventualità ardua anche a livello statistico, visto il numero infinito di posizioni divergenti normalmente presenti nel maggiore partito italiano. Tuttavia, le divergenze tendono ad affievolirsi quando si tratta di salvare la comunità da se stessa attraverso il sacrificio rituale. E’ per questo che i capri espiatori sono così utili.
Per quanto riguarda invece il terzo esempio, credo che l’analogia sia piuttosto evidente, e rimandi a una grande tradizione del centro sinistra italiano. Almeno dai tempi dell’Ulivo – forse anche prima – ogni leader è stato acclamato, eletto, e lapidato senza pietà. Nel caso di Romano Prodi, questa serie drammatica si è ripetuta più volte, dagli anni ‘90 fino all’agguato del 2013 dei 100 “franchi tiratori”. Tra tutti, Marino è stato il capro espiatorio più umiliato, più sbeffeggiato, meno rispettato. Come ripetono tutti i media all’unisono – da La Repubblica, capofila del fuoco “amico”, fino a “Il Fatto Quotidiano” passando per “Messaggero” e “Corriere della Sera” – la caduta dell’ex sindaco non è dovuta a una battaglia campale o a un complotto, ma semplicemente alla sua ingenuità, al suo essere “scemo”. Dunque non un capro, ma una “capra” – nell’accezione del termine resa immortale da Vittorio Sgarbi –, che per la sua stupidità ha meritato una fine indecorosa, senza nemmeno meritarsi l’onore delle armi che si concede ai cattivi.
Lasciando da parte le analogie e tornando alla bruta realtà, è utile chiedersi: poteva essere evitato tutto ciò? Non è facile a dirsi, ma certo c’è stato un momento in cui Marino, aldilà delle scemenze sulla Panda multata o sugli scontrini, ha sbagliato. Come noto, nel mese di Luglio il PD ha di fatto commissariato l’ex sindaco di Roma, imponendo l’entrata in giunta di Causi – già assessore con Veltroni – e Esposito – senatore piemontese pro tav. Come facilmente immaginabile, i due hanno interpretato uno dei più classici tra i ruoli della commedia politica italiana: il cavallo di Troia. Sono entrati in giunta, sono restati due mesi, e nel momento più opportuno si sono dimessi curiosamente in contemporanea, affossando definitivamente il Sindaco. La sorte di Marino era dunque già segnata almeno da tre mesi, ragion per cui sarebbe stato più coraggioso rifiutare il commissariamento e cercare una maggioranza attorno a una giunta indipendente dalle porcate politiche del PD. E’ chiaro che le possibilità di riuscita di un’impresa del genere sarebbero state pressoché nulle, visto che il Partito Democratico avrebbe seduta stante tolto ogni tipo di sostegno, i 5 Stelle si sarebbero spaccati, Sel forse avrebbe aderito, ma con uno scarso potere contrattuale a livello numerico. Inoltre un’operazione del genere è tecnicamente piuttosto complessa a livello comunale, più di quanto non lo sia a livello nazionale, dove oramai è prassi consolidata. Tuttavia, in questo modo Marino avrebbe difeso la propria dignità, e forse anche preparato una sua candidatura da indipendente alle prossime elezioni. Accettando il commissariamento pre mortem del PD, Marino è invece caduto nella trappola politica e mediatica che ha prodotto l’identificazione del capro e della capra, della vittima e dello scemo. Perché Roma può essere governata dai criminali, dai collusi, dai mafiosi, ma mai da uno “scemo”.